Mastro Tabùm, il lavoro ed il gioco

Siamo cresciuti tra i cantieri delle nuove case popolari in costruzione, dove la città lasciava senza troppe pretese lo spazio alla campagna e alle ultime botteghe di artigiani, falegnami e fabbri che resistevano.

A dieci anni, creatività e rudimentali nozioni di ingegneria applicata riempivano i nostri pomeriggi nella costruzione di sbilenche case sugli alberi, di fortezze tra le pietre di scarto dei cantieri edili, e nascondigli mimetizzati nel bosco. La domanda interna di materiali vari da costruzione della nostra piccola economia – in guerra con le bande di ragazzini che vivevano al di là del bosco – era potenzialmente infinita. Purtroppo però, i nostri progetti dovevano adeguarsi  a prender forma attorno ai materiali di scarto che riuscivamo a procurarci bazzicando le officine ed i cantieri.

Ricordo che dopo una razzia di travi in legno insolitamente lunghe, solide e regolari per i nostri standard, costruimmo una vera e propria piattaforma sospesa sull’albero di fichi più grande dell’altipiano. Andammo fieri per molto tempo di quella costruzione che pareva una vera fortezza da cui tener d’occhio buona parte del territorio rurale che avevamo deciso fosse sotto la nostra immaginaria influenza.  Quella razzia fu il frutto di un piano ben programmato. Trafugammo gli scarti del buon Mastro Tabùm che stava lavorando per un cliente facoltoso alla costruzione dell’armadio più grande che avessimo mai visto. In lunghe giornate di fine primavera, osservavamo Tabùm mentre lavorava nel cortile del laboratorio  e studiavamo con attenzione il momento migliore per intervenire. Gli facevamo domande alla rinfusa, gli portavamo qualche bevanda fresca e andavamo a comprare le sigarette o a sbrigare qualche altra commissione su sua richiesta. Studiammo cosi il processo di lavorazione dell’epico armadio e le vie d’accesso più facili al cortile del laboratorio del mastro.

Agimmo poi di sera, dopo le 20, quando Tabùm tornava a casa con flemma, ma tirando sempre troppo a lungo la prima marcia del 127 turchese. Scavalcammo il cancello di ferro battuto e scegliemmo gli scarti di lavorazione migliori ammassati nel giardino dell’officina dove di solito si verniciavano i mobili. Ad esser sincero, non eravamo cosi certi che tutto quel che trafugammo fossero solo scarti e non i pezzi buoni del grosso mobile. Per settimane infatti, il povero Tabùm cercò invano i ladruncoli che avevano razziato il giardino dell’officina, che si erano portati via di tutto. “Pure quelle tavole che non sono buone manco per il camino si sono presi”, rimarcava spesso nel suo dialetto strano, col sigaro perenne ad un lato della bocca, nei momenti di pausa con gli altri mastri. Sono certo che le nostre gentilezze dei giorni precedenti causarono in lui più di un sospetto. Cosi evitammo saggiamente di farci vedere nei giorni successivi, aspettando con pazienza le acque si calmassero. Tra l’altro, non si può dire non avessimo altri impegni nei giorni seguenti al colpo grosso. Quelli furono giorni di lavoro febbrile attorno al povero albero che ospitò paziente la nostra grande opera di ingegneria.

Artigiani e muratori della periferia della città ci conoscevano bene, e noi conoscevamo bene loro. Le nostre immaginarie campagne militari con le bande dell’oltre-bosco, le costruzioni precarie, e le soventi partite a calcetto su breccia erano li a stabilire che quel terra di mezzo senza asfalto né lampioni, tra centro e periferia, era roba nostra quanto loro. I nostri giochi ed il loro lavoro avevano trovato un equilibrio informale ma stabile. Ad esclusione di quella volta che costruimmo una catapulta e la testammo contro le rose della signora Scialpa – con scarsi risultati balistici per la verità – ed altri piccoli momenti di tensione col vicinato, la nostra presenza era generalmente ben accetta. Avevamo messo su una piccola economia di captazione, recuperando pilastri, attrezzi da lavoro rotti, ed altri pezzi di risulta da costruzione in cambio di piccoli favori e lavoretti da portantini: le nostre biciclette sporche e veloci univano i cantieri e le officine sparse ai limiti della città alle botteghe del centro. Le Marlboro, i panini e le bevande andavano recuperati e consegnati in fretta alla richiesta dei lavoratori da noi favoriti. Una buona strategia collettiva aveva anche imposto un precario prezzario sulle consegne più importanti: quelle delle birre fresche nei pomeriggi d’estate. La valuta più gradita erano quelle tavole da ponteggi che con l’usura diventavano troppo fragili per essere utilizzate sui cantieri ma che la nostra fantasia avrebbe trasformato in rigidissime mura di fortini inespugnabili.

Lontano dal centro del borgo, gioco, lavoro e le relazioni sociali in cui entrambi questi fenomeni sono sempre immersi, mantenevano uno strano equilibrio periferico.  Il centrocittà invece, già stressato da turisti e vigili urbani – che il dialetto locale nominava con generosa irriverenza “guardie” – aveva altri ritmi, altri cantieri ed officine, altri giochi ed altre bande di bambini. I rapporti tra lavoratori e ragazzi erano già allora formalizzati, e le partite di calcetto di fronte al sagrato della chiesa avevano cessato di esistere per non disturbare gli avventori dei piccoli bar. I giochi dei bambini del centro vennero spostati quindi verso attrezzati campetti da calcio e parchetti a tema. In pochi anni il campo pubblico di calcetto cadde in malora mentre piccoli investitori preparavano la privatizzazione del gioco, installando prati verdi d’erba sintetica nei loro campetti privati.

Individuare le condizioni necessarie affinché la costrizione dei processi produttivi e le sue gerarchie possono trasformarsi in occasione di autodeterminazione e liberazione collettiva, richiedono un’analisi profonda e non superficiale. In questo preciso momento storico, occorrerebbe parlarne di più per riaffermare dignità e valore del lavoro.

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